Les petites Madeleines

 
Les Madeleins sono dei dolci tipicici del nord-est della Francia, dal gusto simile al plum cake e dalla forma di conciglia. Sono fatti con farina, uova, burro, zucchero e talvolta con vaniglia e nocciole tritate
Da  "Alla ricerca del tempo perduto"  "Dalla parte di Swann" Marcel Proust 

Proust

Les petites Madeleines
Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena.

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Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della Maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla?

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Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…
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All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…."
 
 

Il Miglio

Il miglio (Panicum miliaceum) è un cereale che proviene probabilmente dall’India. Ancora molto coltivato in Africa e Asia (in occidente è una coltura marginale), è particolarmente adatto ai terreni poveri e alle zone più aride.
Prima dell’avvento del mais (coltivato in Italia da dopo il 1500 circa), in Italia era il cereale più usato dalle classi più povere e considerato un buon sostituto della carne nei periodi di astinenza o di carestia. Usato sotto forma di farina per la difficoltà a separare la crusca dalla parte amidacea, con il miglio si preparavano perlopiù polente, alcuni tipi di pane (il pan de mej lombardo) e qualche dolce. Un dolce tipico del padovano e del polesine, la smegiassa è ora prodotto con la farina di mais, mentre originariamente, veniva fatto con la farina di miglio. Il nome, infatti, proviene probabilmente dal migliaccio, un dolce medioevale fatto con il sangue di maiale e la farina di miglio.
Per la medicina cinese il miglio è un cereale che riscalda. Ne viene consigliato l’uso principalmente all’arrivo dei primi freddi e per aiutare lo stomaco e la milza.
Molto spesso viene considerato il cereale dei macrobiotici probabilmente perchè sono quelli che maggiormente lo usano essendo il miglio considerato dagli uomini moderni il cibo per i canarini, che molto intelligentemente lo mangiano perchè ricco di silice e di sali minerali in generale e, per questo, di sostegno a pelle, capelli, unghie, smalto dei denti e indicato per le donne in gravidanza.
E’ privo di glutine per cui ottimo per i celiaci e per chi ha problemi di allergie.
 
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Crocchette di Miglio
Dal libro Ricette per le cinque stagioni di Giuseppe Sivero, Shiatsumilano editore
Ingredienti: poco miglio avanzato, carote, cipolle, crema di olive, pane grattugiato,  crema di sesamo, miso, prezzemolo.
  • Tagliare le cipolle e le carote a dadini
  • Scottare le carote e saltare le cipolle in poco olio
  • Amalgamare il miglio con le verdure e con un po’ di crema di olive.
  • Bagnare le mani e formare delle palle grosse a piacere e passarle nel pan grattato. Metterle in una teglia da forno leggermente unta e spolverata di pan grattato e infornare a forno già caldo a 180° per 10-15 min.
  • Fare una salsa con una parte di miso e 3 parti di crema di sesamo diluiti in acqua e guarnire le crocchette. A piacere guarnire anche con prezzemolo tritato.

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Miglio con cipolle saltate 
Ingredienti: 2 tazze di miglio, una cipolla a cubetti, 6 tazze di acqua calda, olio ex. vergine di oliva.
  • lavare con cura il miglio;
  • rosolare in pochissimo olio, per 4-5’ la cipolla;
  • incorporare il miglio e tostare assieme per 2-3', mescolando bene;
  • versare l'acqua calda e salare;
  • portare a bollore, quindi abbassare al minimo e cuocere il tutto per 30-35'.
 

Piccola storia del Pane

 
Panificio antico
Il pane è probabilmente l’alimento fermentetato più diffuso nel mondo.
Viene prodotto con la farina di vari cereali (il frumento è il più usato) e, si pensa, sia originario dell’Egitto dove se ne trova traccia già dal 3500 a.c.
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Il pane era già noto all’Homo erectus circa 1 milione di anni fa; il primo pane era non lievitato ed è nato quando l’uomo scoprì, più o meno casualmente, che un impasto di cereali messo su una pietra calda diventava croccante e appetitoso. Se ne trovano ancora numerose tracce in varie parti del mondo come il pane azimo ebreo,la tortilla messicana, il chapati indiano, l’oatchake scozzese, lo shawnee cake dei nativi del nord america, il paoping cinese o il injera  etiope. Tutti pani fatti con diversi cereali e che hanno il vantaggio di durare a lungo e lo svantaggio che da freddi diventano duri e di difficile digestione.
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Sono stati gli egiziani che hanno ottenuto un nuovo tipo di frumento che si poteva separare facilmente dalla pula (parte esterna di protezione cellulosica) ottenendo così farine più pregiate. Con i cereali selvatici più antichi questo non era possibile e per questo dovevano essere riscaldati privando così le proteine della necessaria elasticità per la lievitazione. La produzione di questo tipo di frumento è però stata, per secoli, molto limitata ed era di quasi esclusivo uso delle classi più ricche. La maggior parte delle popolazioni hanno continuato ad usare pani non lievitati. Con l’avvento di nuove qualità di frumento gli Egiziani hanno potuto applicare le prime tecniche di lievitazione rendendo il pane morbido e fragrante.
I greci successivamente le hanno miglorate fino a produrre  70 tipi di pane con l’aggiunta di condimenti e aromi,  molto simili a quelli moderni.
Sono stati i romani ad introdurre il pane in Italia (portando fornai greci come schiavi). Sembra che il termine farina derivi da farrina cioè ricavata dal farro (Triticum dicoccum) una qualità di grano duro molto coltivata, allora, nel centro Italia e da cui deriva, a seguito di vari incroci il Triticum durum il nostro grano duro. Da un altra selezione naturale è nato il Triticum spelta o farro spelta che ha generato il Triticum aestivum, il nostro grano duro.
Secondo Plinio la produzione del pane su più ampia scala è iniziata, a Roma, nel 171 a.c. con la legalizzazione di una categoria di artigiani, i pistores ( da pistor-oris cioè “chi pesta i cereali nel mortaio”) che all’inizio erano liberti o cittadini di bassa condizione sociale e che poi, quando divennero dei fornai, ottennero molti privilegi fino a creare una corporazione (colleggium pistorum) che riusci ad ottenere contributi dall’amministrazione per la distribuzione gratuita del pane al popolo.
Si perchè il pane aveva raggiunto una tale diffusione da sostituire la classica polta o plus (zuppa di cereali selvatici, leguminose e quando c’era carne) e da diventare cibo indispensabile per ricchi e poveri tanto che in periodi di carestia furono promulgate leggi prima per la distribuzione a metà prezzo del grano e poi per la distribuzione gratuita del pane. Era così diffuso che Giovenale nelle sua Satire coniò la famosa espressione “Panem et Circenses” cioè mangiare e divertirsi.
Però, il pane industriale dei giorni nostri, ha poco a che vedere con il pane che producevano gli egiziani e i romani con una tecnica, conservata più o meno uguale, fino agli inizi del ‘900.
Il pane che noi usiamo al giorno d’oggi è, per lo più, pane di frumento (di grano tenero nei paesi più freddi e di grano duro in quelli più caldi); il frumento è però un cereale che fino a non molti hanni fa, come sopra detto, non era così diffuso ed era considerato un cereale per  ricchi. Le popolazioni meno abbienti lo usavano perciò come merce di scambio e per la panificazione o per le “polente” usavano cereali più “poveri”.
 Cesta pane
Lo spiega bene Dino Coltro ne “La cucina tradizionale veneta”. (Newton Compton editori)
……. Nelle case bracciantili il pane era una rarità. Secondo le testimonianze orali, il pane accompagnava la carne a Natale, a Pasqua e alla Sagra. Era considerato il cibo rituale del Natale. Nelle case attaccata a una trave della cucina, c’era la zesta del pan, la cesta del pane, perché el pane fato in casa, fatto in casa, era custodito con gelosa attenzione dalla mare, la madre governatrice. Ai bambini bastava on corno de pan; alle donne meza ciopeta; agli uomini na ciopeta.

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Nei tempi più recenti (inizio del ‘900) ogni contrada aveva il forno in comune e ogni tanto, se fase na sfornà de pan, si cuoceva una sfornata di pane. Il ≪tempo del pane≫ era rappresentato dalla medanda il periodo della mitetitura. Perché aveva del so, terra propria, il pane era, naturalmente, il  ≪ pane quotidiano≫ tenendo però presente che per i coltivatori diretti, il frumento costituiva ≪merce di scambio≫ o comunque una fonte di guadagno, come la stalla. La polenta resteva anche per loro la base dell’alimentazione. Ogni zona, si può dire, aveva particolari forme di pane; la ciopa, la ciopeta, el panetto, la roseta ecc.
…….Il Ruzante, nella Betia, cita un pan de massaria, certamente di grande formato, cotto una volta la settimana. Mentre è el pan scafetò (pane biscottato e condito più simile ai biscotti odierni) appare un pane prelibato, da ricchi e da cittadini, questo pan de massaria doveva essere il pane dei contadini. Questi ultimi si cibavano anche di pianele, schiacciate di farina di castagne, il castagnaccio venduto sui banchetti delle piazze fino a qualche decennio fa. El magnar pan e megior vin costituisce per i protagonisti della Betia un sicuro e felice nutrimento………
 Le moderne tecniche di panificazione si sono rese necessarie dalla separazione delle città dalla campagna e di conseguenza dalla necessità di lavorare le farine perchè si conservassero nel tempo. Tradizionalmente in ogni città e in ogni villaggio era presente un mulino e i chicchi di cereale venivano conservati interi e macinati all’occorenza circa una volta al mese; in questa maniera si conservavano più a lungo e la farina era sempre “fresca”. Con l’avvento delle grandi città era diventato più comodo macinare grandi quantità di farina per agevolarne la vendita. Per conservare le farine piu a lungo era però necessario privarle delle sostanze oleose, proteiche e vitaminiche presenti nella crusca, che  inrancidivano più facilmente. Queste sostanze però sono quelle che danno al pane la caratteristica fragranza e il caratteristico aroma. Da qui è iniziata l’abitudine di aggiungere al pane grassi vegetali o animali per avere accettabili qualità organolettiche e farlo durare di più nel tempo.
 

Panificazione Naturale

 Il pane a pasta acida
Disegni di Claudio Bighignoli
Alcune premesse.....

Panificio antico

Negli anni ’70 - ’80 del secolo scorso, vi è stata una riscoperta degli antichi metodi di produzione del pane che però, se non fatti bene, potevano portare a molte complicazioni digestive e nutrizionali. E’ per questo che è importante chiarire alcuni aspetti che purtroppo, nella fretta della civiltà del consumo, vengono trascurati.

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Importanza della lievitazione acido- naturale

Questo tipo di lievitazione ha lo scopo di meglio salvaguardare e rispettare gli innumerevoli equilibri organolettici e nutrizionali sui quali il pane “vive”, sia prima che durante e dopo la cottura. Dal punto di vista nutrizionale la lievitazione acido-naturale (o lievitazione a pasta acida) presenta, rispetto agli altri tipi di lievitazione, alcuni vantaggi fondamentali.In passato, ma ancora oggi sebbene in misura minore, il pane integrale è stato accusato di provocare anemia e processi di decalcificazione in coloro che se ne nutrono costantemente. QUESTA ACCUSA NON HA ALCUN FONDAMENTO SCIENTIFICO.
 
Vediamone il perché....
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L’acido Fitico
Nella crusca del chicco di grano e quindi anche nelle farine integrali che si ottengono macinando l’intero cereale, è presente in quantità apprezzabile l’acido fitico un acido organico che contiene fosforo, presente negli alimenti del mondo vegetale (specie cereali e legumi) e assente in quelli del mondo animale.  In laboratorio si è constatato che questo acido impedisce l’assorbimento di importanti metalli come ferro in particolare ma anche calcio, zinco e magnesio. La combinazione di tali metalli con l’acido fitico forma dei sali, chiamati fitati (fitato di ferro, di calcio, di magnesio), insolubili, per cui non assimilati dall’organismo, ed invece espulsi con le feci. Il sospetto è che l’abituale consumatore di pane integrale vada incontro al rischio di anemia e decalcificazione. Questo rischio è sicuramente maggiore in alcuni soggetti come donne in gravidanza e bambini ma, in linea di massima, con una alimentazione completa e variegata, il rischio di carenze viene ridotto al minimo. Per approffondire l’argomento, specie per quel che riguarda l’anemia, vi rimando al bel libro di Carlo Guglielmo “Il grande libro dell’ecodieta” ed. Mediterranee cap. 2.5
Se lo si considera dal punto di vista strettamente chimico, comunque il ragionamento non fa una grinza. Diverso però è se si esce dal laboratorio, e si analizza il pane durante il processo di lievitazione e non sull’acido fitico isolato dal suo contesto naturale.
 

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La Fitasi
Nella crusca dei cereali è stata riscontrata la presenza di un particolare enzima detto fitasi, stabile agli acidi e che può scindere i gruppi fosfato dell’acido fitico nei suoi costituenti (insistono e acido fosforico), impedendo così che si leghi con i minerali e li possa sottrarre all’organismo. Perchè la fitasi “lavori” e riduca la presenza di acido fitico c’è bisogno però di una ambiente opportunamente acido e di una fermentazione abbastanza lunga (alcune ore) perchè avvenga quella che si chiama idrolisi enzimatica e trasformi l’acido fitico in innocui sali come il fitato di sodio e di potassio. Questi due aspetti non sono rispettati nella moderna lievitazione con lievito di birra (o peggio con lievito chimico) che ha nella velocità la sua caratteristica principale e che, per questo, può creare ancora più problemi se fatta sulla farina integrale ricca di crusca per cui di acido fitico, che non avrà il tempo di essere trasformato. Attenzione perciò a prendere la crusca come lassativo o come “pulitore intestinale”. La crusca è, come detto, ricchissima di acido fitico ed esso non viene distrutto per il semplice fatto che, come abbiamo visto, ciò succede solo in presenza di lievitazione naturale. Lo stesso vale per il pane integrale ottenuto miscelando crusca e farina raffinata e con lievito di birra.
Ma vi sono anche altri motivi per preferire la lievitazione naturale.
La farina integrale in buon stato di conservazione e biologica è assai ricca di cariche enzimatiche e diastasiche (alfa e beta amiliasi che scindono il malto in glucosio) naturali la cui azione benefica è favorita dalla lievitazione acido-naturale che trasforma le proteine presenti nella farina in composti più assimilabili e quindi più digeribili; gli zuccheri in acido lattico il quale crea, nella microflora intestinale, un ambiente che si oppone all’insorgenza di fenomeni patogeni.

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L’impasto lievitato, prima della cottura, è un insieme estremamente ricco di funghi microscopici (in particolare di saccaromiceti che comprendono molta parte dei lieviti) e di enzimi che vengono distrutti, in gran parte, dalla cottura. Solo i saccaromiceti presenti nella parte centrale (“cuore” o “pulcino”) della pagnotta (specie se questa è almeno 1kg) rimangono attivi e, una volta finita la cottura, ricominciano a moltiplicarsi e a distribuirsi nell’intera pagnotta riattivando tutti quei composti che danno al pane la caratteristica fragranza.
Inoltre, la maggiore durata della lievitazione naturale, agevola l'azione degli enzimi coinvolti nella digestione proteica (proteolitici) che scindendo le proteine nei componenti base cioè gli amminoacidi, aumentando sia la digeribilità sia le caratteristiche finali di fragranza e appetibilità del pane; sono soprattutto alcuni amminoacidi che, durante la cottura realizzano, reagendo col glucosio, la formazione di sostanze responsabili del profumo e del sapore del prodotto.
L’uso del lievito naturale fa conservare più a lungo i prodotti da forno ottenuti (la maggiore acidità dell'impasto riduce lo sviluppo delle muffe) e crea un'alveolatura più regolare dovuta a una più lenta produzione di anidride carbonica durante la fermentazione. Il pane così prodotto andrebbe mangiato almeno un giorno dopo la cottura, appunto per dare tempo ai saccaromiceti di ripopolarlo e ritrasformarlo in cibo “vivo”.
Fra i saccaromiceti esiste un tipo particolare, il Saccharomyces Ellipsoideus (il principale agente della fermentazione alcolica del mosto d’uva), che produce un fattore antimicrobico ed acido lattico; entrambi servono a combattere e a contenere diversi germi patogeni (ad es. le salmonelle) che si potrebbero sviluppare in modo abnorme nel nostro intestino.

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La panificazione a pasta acida
La fermentazione naturale del pane è in parte lattica (anaerobica e prevalente) e in parte acida (aerobica). Probabilmente si è scoperta in maniera empirica perchè si ottiene semplicemente facendo fermentare una miscela di acqua e farina per qualche giorno.
Per una buona riuscita del lievito e di conseguenza per una buona qualità di pane è necessario però rispettare alcune condizioni:
  1. L’acqua deve essere priva di cloro e poco calcarea. Sarebbe buono usare acqua di sorgente ma, se non ne avete a disposizione, almeno per preparare il lievito, usate un acqua minerale poco mineralizzata.
  2. Il frumento deve provenire da coltivazioni biologiche
  3. La farina deve essere integrale ottenuta macinando il chicco intero del frumento con mulini a pietra, a velocità moderata per evitarene il surriscaldamento che danneggerebbe, i grassi e le vitamine
  4. L’impastatura deve essere lenta e moderata per permettere alle molecole filiformi del glutine di disporsi parallele fra di loro e conferire, in tal modo, al pane la tipica struttura spugnosa ed alveolare, favorevole alla buona digestione ed assimilazione.
 
Preparazione del lievito naturale
Mescolare in una ciotola (meglio se di legno o terracotta) 100 gr di farina con circa 50 gr di acqua tiepida (circa 25°) fino ad ottenere un impasto morbido.
Mettete il recipiente in un luogo tiepido (fra i 18° e i 20°) coperto con un panno di lana spesso che va tenuto costantemente umido per evitare la formazione della crosta, per 2-3 giorni. Aggiungere poi 3-4 cucchiai d’acqua e la farina necessaria per ottenere un impasto solido. Lasciare riposare almeno una notte e, dopo di che, il lievito è pronto.
Alcuni consigliano di aggiungere del miele che sicuramente agevola l’azione del lievito. Però il miele inibisce la produzione dei batteri lattici che creano una acidita ideale per la distruzione dell’acido fitico (vedi sopra)
Il lavoro di produzione della pasta madre è molto delicato e, specie all’inizio, è facile fare dei pastrocchi. Dovete avere pazienza e usare recipienti puliti per evitare fermentazioni anomale. La cosa che succede più spesso è che il lievito “marcisca” cioè fermenti troppo. A quel punto vedrete formarsi delle bolle e ci sarà un forte odore acido. In questo caso il lievito ha perso forza e il pane non lieviterà e sarà troppo acido.
La cosa più semplice è quella di farsi dare da qualcuno un pezzo di impasto e partire con quello rispettando la procedura  sotto scritta.

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Fare il pane
Aggiungere alla pasta madre tanta farina quanto il peso e reimpastare con acqua tiepida.
Lavorare l’impasto per renderlo morbido e riporlo nella terrina per 4 ore circa. Staccare un pezzo dell’impasto che farà da “madre” per la panificazione successiva. La “madre” va  conservata in un luogo fresco (sarebbe meglio evitare il frigorifero) dentro a un vaso di vetro a chiusura ermetica per un massimo di 8-10 giorni. E’ meglio però rinfrescarla ogni 2-3 giorni con poca farina ed acqua perché non perda di potenza fermentativa.
Sciogliere 1/2 cucchiaino di sale marino integrale in acqua tiepida. Aggiungerlo all’impasto assieme a un pari peso di farina. Lavorare bene l’impasto aggiungendo acqua quanto basta per renderlo morbido.
Far riposare per circa 2 ore in un posto tiepido e coperto da un canovaccio e infornare a forno caldo a 220° per circa 1 ora (il tempo dipende dalla grossezza della pagnotta e dal tipo di forno).
I tempi di lievitazione e di cottura sono puramente indicativi perchè dipendono da troppi fattori (umidità, tempi di lavorazione, temperatura, tipo di farina, qualità del lievito, ecc.).Per le lievitazioni un buon sistema è premere l’impasto leggermente con un dito. Se resta un buco non è ancora pronto; se ritorna lentamente è pronto. Se c’è un odore acido e l’impasto ha perso di consistenza è “marcito” cioè ha lievitato troppo.
Per la cottura c’è il vecchio sitema dello stuzzicadenti che deve uscire asciutto una volta infilato nella pagnotta. Però non aprite il forno per i primi 20 - 30 min. perchè rischiate di compromettere la lievitazione.
Come spesso succede in cucina si va per tentativi ed errori. Vi consiglio, le prime volte, di scrivervi tutto: peso dell’acqua, della farina, del sale; tempi di lievitazione e di cottura.

 

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Dal trattato “Sulla proprietà dei cibi” di Galeno (ca.180 d.C.), medico greco che ha condizionato la medicina occidentale fino al 1500-1600.

 

Il frumento e il pane

 

Mi sembra piuttosto comprensibile che la maggior parte dei dottori debba iniziare la propria spiegazione parlando del frumento, visto che questo cereale è il più utile e il più utilizzato da tutti i greci e dalla maggior parte degli stranieri. I tipi di frumento più nutritivi sono quelli che vengono spulati e che hanno una struttura densa e compressa, tanto che i denti hanno difficoltà a romperli. Questi tipi di frumento forniscono all'organismo una gran quantità di nutrienti in rapporto al poco volume consumato […]. 

 

Quando e cosa si serve per una veglia funebre

 
Da "Dona Flor e i suoi due mariti" - Jorge Amado - Garzanti 1977

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Scuola di culinaria sapore e arte
Quando e cosa si serve per una veglia funebre.
(risposta di donna Flor ad una alunna)
Non perché avviene in un giorno disordinato di lamentazioni e tristezza, non per questo si deve permettere che la veglia funebre vada alla bell’e meglio. Se la padrona di casa, fra singhiozzi e svenimenti fuori di sé, immersa nel suo dolore, o giacente morta nella bara, non potrà farlo, un parente o una persona amica si assumerà l’incarico di occuparsi della veglia, poiché non si possono abbandonare senza niente da bere né da mangiare, i poveretti, solidali per tutta la notte, a volte in inverno e col freddo.
Acciocché una veglia funebre sia animata ed onori effettivamente il defunto che la presiede, rendendoli meno grave la prima confusa notte della sua morte, è necessario dedicarvi cure sollecite, occupandosi del morale e dell’appetito.

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Quando e cosa ci serve?
Ebbene, si serve per tutta la notte, dal principio alla fine. Il caffè è indispensabile, e va servito in continuazione, naturalmente in tazze piccole. Il caffe e latte, con pane, burro, formaggio, qualche biscottino, qualche polpettine di aipim (Mandioca commestibile) o carimã (Sinonimo di pupa), fette di couscous con uova fritte, quello solo al mattino e solo per chi ha passato li la notte, fino all’alba.
La cosa migliore è tenere sempre al fuoco un bollitore perché non manchi mai caffè, visto che arrivano continuamente nuovi visitatori. Il caffè in tazzina è accompagnato da biscotti o crackers; qualche volta si può servire un vassoio di roba salata, panini con formaggio, prosciutto, mortadella, cose semplici, visto che complicazione ce ne sono già abbastanza col defunto.
Se però la veglia dovesse essere una veglia di lusso, di quelle dove il denaro corre a fiumi, allora é di prammatica una tazza di cioccolata a mezzanotte, spessa e bollente, oppure un brodo grasso di gallina. E per completare, polpettine di baccalà, fritto misto, crocchette, dolci assortiti, frutta secca.

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Da bere, trattandosi di una casa ricca, oltre al caffè ci può essere della birra o del vino: solo un bicchiere per accompagnare il brodo e il fritto. Champagne mai, non è considerato di buon gusto.

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Sia in una veglia ricca, sia in una veglia povera, si esige però la presenza costante e necessaria, di una buona cachaçina (Acquavite di canna); tutto può mancare, persino il caffè, lei sola è indispensabile; senza il suo conforto non c’è veglia funebre che si rispetti. Una veglia funebre senza cachaça significa mancanza di considerazione per lo scomparso, indica indifferenza e disamore.
 

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