Tagliatelle verdi
Da Quilombo, di Daniel Chavarria
Per il pesto genovese, naturalizzato in Uruguay fin dai tempi dell’armata garibaldina, mia nonna sostituiva i pinoli, introvabili a quelle latitudini, con le noci; e sminuzzava il basilico dolciastro del nostro paese insieme alle altre erbe mediterranee scelte dallo stesso Achemedo, per dare al nostro pesto uno sconvolgente contrasto amarognolo e una vivacità che non ho mai trovato nel canonico modello ligure. Ma il piatto che ho gustato con maggior godimento in tutta la mia vita, mia nonna lo preparava quando mi portava al suo paese natale, durante le vacanze scolastiche. Erano le tagliatelle verdi, che con l’aiuto di sorelle e cognati, impastava sotto la pergola nel cortile sul retro, all’ombra degli alberi piantati da mio bisnonno calabrese. Con quelle tagliatelle estive banchettavano una trentina di membri della famiglia e qualche amico. Per condirle, Margarita cucinava quello che ancora oggi si conosce come il tucco, un sugo genovese con più o meno gli stessi ingredienti di quello bolognese ma al posto della carne trita metteva un gran pezzo di coscia, farcito con erbe aromatiche e lardo. Margarita e le sue sorelle non lavoravano mai la pasta dove poi si sarebbe mangiato. Era una norma dettata da certi arcani del suo paese natale. (….). Una volta che la pasta aveva raggiunto l’elastica compattezza, la si lasciava riposare coperta di piazzuole bianche. (…..) Ne strappavano con crudeltà grandi manciate, che domavano a suon di pizzicotti, schiaffi e pugni, fino a ottenere due o tre lenzuoli giallognoli, quasi trasparenti, che coprivano per intero la tavola.