Racconti di cucina - Soleluna Verona

Aglio, menta e basilico

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Da  "Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo"  di Jean-Claude Izzo

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Mi piace sentire Marsiglia vibrarmi sotto la lingua.
Marsiglia non è provenzale. Non lo è mai stata. Nella maggior parte dei ristoranti, quindi, si mangiano cose semplici, e a prezzi onesti, piatti senza artifici legati non ha una tradizione ma a una tenace fedeltà alle origini.
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Qualcuno l’ha già detto: la cucina qui non innova, non “si mescola“, perpetua. Mangiare e ti riporta al tuo paese. Mettersi a tavola, in casa come al ristorante, in famiglia, tra amici, vuol dire far rivivere la memoria, i ricordi.
Perciò non parlerò della cucina provenzale.

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Questo vuol dire spazzare via, finalmente, tutte le ambiguità che pesano su Marsiglia e la sua cucina. Una città in cui si mangerebbe se non proprio male, perlomeno mai un granche bene. E che, ci ripetono, manca impietosamente di fantasia. Un giorno ho letto addirittura che bisognerebbe inventare tajine di bouillebaissè. Perché no, se c’è qualche estimatore. Però, mi viene da dire con un sorriso, se non esiste forse è perché non ce n’è motivo. Capitemi bene: sono di questa città, è vero, e spesso mangio con più gusto un trancio di pizza preso da Roger e Nénette, guardando il mare con le chiappe su uno scoglio, piuttosto che annoiarmi davanti a una sogliola in crosta con il suo “succo d’oliva” in un ristorante ovattato dove si accalcano quelli che sognano una città diversa. Omogenea, priva di passione, e per forza di cose senza esuberanza. Provenzale, e civile, oserei dire. Dove l’aglio sarebbe saggiamente limitato, se non bandito dai pranzi - quelle famose colazione d’affari in cui, più che mangiare si pilucca. A me, quando mangio, mi piace sentire Marsiglia vibrarmi sotto la lingua. Selvaggia e volgare, come possono essere una spigola, un sarago ho delle triglie con finocchi alla griglia condite solo con un filo d’olio d’oliva, come da Paul o all’Oursin. Questo significa che i ristorante dove vado volentieri raramente figurano sulle guide, e non ricevono mai cappellini da cuoco chiavi d’oro. Ma che importa! La gente che si incontra in certi posti non è necessariamente quello che mi va di frequentare.

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D’altronde, quelli apprezzano solo con moderazione aïoli, bouillebaissè o purè di acciughe. Non sanno niente del piacere delle focaccine fritte. Non hanno mai assaggiato lumache in salsa piccante, ne la salsa di ricci di mare, ne i piedini e le interiora di montone, oppure il merluzzo con cipolla e salsa alle erbe, la salsa bohemienne, lo stufato di fave fresche. E ignorano del tutto la gioia di una zuppa al basilico, appena tiepida, all’ombra di un pino. Non è un caso se parlo di questi piatti. La cucina marsigliese da sempre si basa sull’arte di abbinare pesci e verdure disdegnate dalla ricca borghesia di armatori, “la gente del posto“, che le terre dei mas e delle bastides della regione di Aix rifornivano di prodotti raffinati: selvaggina e volatili, agnelli, tartufi, formaggi e frutta. La bouillebaissè e nata così. Per via di quel pesce dall’aspetto orribile, lo scorfano, invendibile perché è immangiabile. Potremmo fare un mucchio di esempi. Cucina da poveri, certo. Però la sua genialità continua ancora a deliziarci, anche se oggi si litiga sui mille modi diversi di preparare la bouillebaissè. Per non far arrabbiare nessuno, dirò che e meglio se ve la preparate da soli. Ma lo stesso vale per tutte le ricette marsigliesi, e più in generale per i piatti del Mediterraneo: couscous, tajine oppure paella, o anche solo pasta al pomodoro con polpette e uccelletti.

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E così ritroviamo tutta la convivialità del sud: mangiare è una festa. Quando sono in un ristorante infatti, è questo che cerco prima di tutto: l’atmosfera familiare. È vero, i piatti non sempre sono all’altezza  un giorno dopo l’altro, come da Etienne, al Panier. Ma è un po’ come la vita. Ci arrangiamo con quello che offre la giornata. Sappiamo che un giorno arriverà qualcosa di meraviglioso, non può che essere così. E resteremo senza parole davanti ai ravioli in salsa d’olive, ai calamari al prezzemolo o anche solo a un po’ di frittura. Tutto qui. Marsiglia mi va bene così.
 

Broccolo Fiolaro di Creazzo

 

I leori

Il Broccolo fiolaro di Creazzo è una varietà, delle circa 70 esistenti, di broccolo (famiglia delle Cruciferae o Brassicaceae) coltivata sulle colline esposte a sud (max 200 metri slm) che sorgono intorno a Creazzo, cittadina in provincia di Vicenza che, in epoca romana, era un importante centro commerciale perchè si trovava sulla via Postumia, collegamento fra 2 importantissimi porti e cioè Genova ed Aquileia.
E’ così chiamato perchè sul fusto della pianta sono inseriti dei germogli che in dialetto vengono chiamati “fioi” cioè figli.
 

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Questo ortraggio era conosciuto fin dai tempi dei romani e Catone il vecchio ( 234 ac - 149 ac), strenuo difensore delle tradizioni romane e della vita in campagna, ne parla nei suoi scritti esaltandone anche le proprietà medicamentose.
Importato dai veneziani qualche secolo fa nell’alto vicentino, ha trovato sulle colline di Creazzo l’ambiente ideale per la crescita, sia per l’esposizione a sud ,che per la qualità del terreno sciolto, ben azotato.

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Viene seminato in semenzaio verso giugno e trapiantato verso la fine di agosto inizio settembre.
La raccolta si fa da novembre a febbraio nel periodo delle gelate in quanto la pianta è in grado di difendersi fino a temperature di - 7 o -8 gradi.
Si dice che i broccoli più buoni siano quelli che sono stati più al freddo in quanto, per difendersi dal gelo, limitano il contenuto di acqua e il gusto diventa più dolce.
Conosciuto per il suo gusto particolare, al broccolo fiolaro, come molte altre piante della famiglia delle brassicacee, sono riconosciute da sempre proprietà nutrizionali perchè ricco di magnesio e potassio che aiutano nelle prevenzione dell’ipertensione e proprieta medicamentose in quanto ricco di antiossidanti, sostenze che aiutano la prevenzione dei tumori.
La pianta era molto coltivata nel 1700 - 1800 e anche Johann Wolfgang von Goethe nel 1786 ne rimase colpito in una sosta nel vicentino durante il suo viaggio in Italia.
 
Ricetta
 

https://www.solelunaverona.it/blog/ricette/91-verdure-verdi-saltate-2.html

 

Cibo per donne tristi

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Da  "Trattato di culinaria per donne tristi"  di Hector Abad Faciolince

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Fai piroette col corpo e l’immaginazione per evadere dalla tristezza. Ma chi ha detto che è proibito essere tristi? In realtà, molte volte, non c’è nulla di più sensato che essere tristi; quotidianamente succedono cose, agli altri o a noi, per cui non c’è rimedio, o per meglio dire, per cui c’è quell’unico e antico rimedio di sentirsi tristi.
Tristezza
Non lasciare che ti prescrivano l’allegria, come chi ordina un ciclo di antibiotici o dei cucchiai di acqua di mare a stomaco vuoto. Se lasci che trattino la tua tristezza come una perversione o, nel migliore dei casi come una malattia, non sei perduta; oltre a essere triste ti sentirai in colpa. E non hai colpa di essere triste. Non è normale sentire dolore quando ti tagli? Non ti brucia la pelle se ti danno una frustata?
Be’, allo stesso modo il mondo, la vaga successione dei fatti che accadono (o che non accadono), creano un fondo di malinconia. Lo diceva già un poeta malinconico: “come l’aria riempire vuoti che si formano tra i corpi, così la malinconia occupa le pause e gli intervalli tra le passioni; essa si insedia nei minimi spazi liberi, riempi tutti gli intervalli tra le passioni, fai in modo che un’anima in cui non c’è né piacere né felicità sia comunque un’anima in cui accade qualcosa“.
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Vivi la tua tristezza, palpala, sfogliala nei tuoi occhi, bagnala di lacrime, avvolgila nelle grida o nel silenzio, copiala nei quaderni, segnala sul tuo corpo, fissala sui pori della tua pelle. Infatti, solo se non ti difendi fuggirà, a momenti, in un altro posto che non è il centro del tuo dolore intimo.

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E per degustare la tua tristezza devo consigliarti anche un piatto malinconico: cavolfiore nella nebbia. Si tratta di cuocere quel fiore bianco e triste e consistente, con il vapore acqueo. Lentamente, con lo stesso odore dell’alito che emana la bocca nei lamenti, si cuoce fino a intenerirsi. E, avvolto nella nebbia, nel suo vapore fumante, aggiungimi olio d’oliva e aglio e un po’ di pepe e salalo con le lacrime che siano tue. E assaporalo lentamente, mordendolo dalla forchetta, e piangi di più e piangi ancora, che alla fine ecco il fiore andrà succhiando la tua malinconia senza lasciarti asciutta, senza lasciarti tranquilla, senza rubarti l’unica cosa tua in quel momento, l’unica che nessuno potrà mai toglierti, la tua tristezza, ma con la sensazione di aver condiviso con quel fiore immarcescibile, con quel fiore assurdo, preistorico, con quel fiore che i fidanzati non chiedono mai dal fiorai, con quel fiore del cavolo che nessuno mette nei vasi, con quell’anomalia, con quella tristezza fiorita, la tua tristezza di cavolfiore di pianta triste e malinconica.
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Les petites Madeleines

 
Les Madeleins sono dei dolci tipicici del nord-est della Francia, dal gusto simile al plum cake e dalla forma di conciglia. Sono fatti con farina, uova, burro, zucchero e talvolta con vaniglia e nocciole tritate
Da  "Alla ricerca del tempo perduto"  "Dalla parte di Swann" Marcel Proust 

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Les petites Madeleines
Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena.

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Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della Maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla?

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Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…
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All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…."
 
 

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 Da O Lost, di Thomas Wolfe (1929)

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...“Cibo, cibo, caro fratello della poesia, che abbiamo incontrato in tanti posti meravigliosi, attento! L’uomo con la palpebra calata e il nero cappello a cilindro che ha devastato la Vite, tua sorella, ha già messo gli occhi su di te. Non sei forse tu il simbolo di tutte le nostre frustrazioni, per cui pur essendo ricchi, siamo poveri; pur avendo tutto, moriamo di fame? Pseudo-musica, pseudo-poesia, pseudo-filosofia, pseudo-teatro, pseudo-birra: arriverà un giorno in cui, sconfitti da questo mistero, alzeremo lo sguardo sulle pecore intente a brucare mentre ci apprestiamo a cenare con agnello prefabbricato; oppure, nella stagione in cui il granturco maturo si piega sotto il peso delle spighe, verseremo nel piatto del mais sintetico?”...

Pane e polenta

 Da I leori del Socialismo, Dino Coltro (1973)

I leori

La mattina si mangiava polenta, e mezzodì si trigava alla una anca alle do e l’era polenta, la sera ancora polenta, polenta o bigoloto, delle volte con un pizzego de capuzzi bruciati nell’asedo o messi a cuocere sui canoti con una voia de unto, via della dobia perché il giovedì mia povera mamma trottava fino da Breda, al molino comperava riso che era riseta piena de pavio, a ottanta schei al decalitro, quella sera preparava, con pochi fagioli o capuzzi, un minestrone che a noi altri ci pareva de ingrassare a ogni scuciarà quando lo mangiaimo, ma minestra era solo il giovedì, non c’era pane, si vedeva il pane una o do volte l’anno e nel mese della spigolatura, si andava sui campi appena mietuti, donne e buteleti spetaimo come mosche sul filo dell’erba della cunetta che ci aprissero il quarto libero dai covoni, allora si metteva insieme, spiga su spiga, una sfornata di pane da cavarse una fame sempre vecchia.

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Par il resto dell’anno si nominava il pane nel Padre nostro che si recitava ogni domenica in chiesa, pregando con quei cristiani che mangiavano sul serio il so pane quotidiano, le altre mattine bastava tirarse sulla camisa un segno de croce de traverso, male inchiodato sulle spalle che sentivano ancora la fatica del giorno prima e che il saccone de foie secche no aveva fatto tempo de tirar via nella notte.

 

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Vino, forse a sabato, mezzo litro, un gotto tirando i schei del settimanale, in fondo aver preso quei quattro soldi delle giornade, faceva pensare de podere pagarti un gozzo de vino con tutto diritto, ogni giorno non ci stava dentro, al sabato era come che il vino fosse paga, ma per berlo bisognava far passare dal buso dello scarsellino un pizzego de palanche che sapevano ancora del profumo da sior, qualche paron più tardi un fiasco lo metteva sul salario, il caffè noi bambini neanche pensarlo, pure se era de orzo scarso, solo quando ti veniva el mal de pancia, ma era difficile fare delle indigestioni, mia mamma ci dava i cinciarini la sera quando sfarinava la polenta, qualche volta li condiva con una goccia de olio, quella allora diventava la cena, era proprio una goccia l’olio non è par modo de dire, né un filo o una bava in pi, mi ricordo de aver bevuto il primo caffè quando sono andato a soldato da permanente, adesso nelle case, nel cantone sul quarelo della mare, c’è sempre il brondineto del caffè con tanto de fondi che buttano via e sono i più buoni basta tastarli.

Piccola storia del Pane

 
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Il pane è probabilmente l’alimento fermentetato più diffuso nel mondo.
Viene prodotto con la farina di vari cereali (il frumento è il più usato) e, si pensa, sia originario dell’Egitto dove se ne trova traccia già dal 3500 a.c.
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Il pane era già noto all’Homo erectus circa 1 milione di anni fa; il primo pane era non lievitato ed è nato quando l’uomo scoprì, più o meno casualmente, che un impasto di cereali messo su una pietra calda diventava croccante e appetitoso. Se ne trovano ancora numerose tracce in varie parti del mondo come il pane azimo ebreo,la tortilla messicana, il chapati indiano, l’oatchake scozzese, lo shawnee cake dei nativi del nord america, il paoping cinese o il injera  etiope. Tutti pani fatti con diversi cereali e che hanno il vantaggio di durare a lungo e lo svantaggio che da freddi diventano duri e di difficile digestione.
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Sono stati gli egiziani che hanno ottenuto un nuovo tipo di frumento che si poteva separare facilmente dalla pula (parte esterna di protezione cellulosica) ottenendo così farine più pregiate. Con i cereali selvatici più antichi questo non era possibile e per questo dovevano essere riscaldati privando così le proteine della necessaria elasticità per la lievitazione. La produzione di questo tipo di frumento è però stata, per secoli, molto limitata ed era di quasi esclusivo uso delle classi più ricche. La maggior parte delle popolazioni hanno continuato ad usare pani non lievitati. Con l’avvento di nuove qualità di frumento gli Egiziani hanno potuto applicare le prime tecniche di lievitazione rendendo il pane morbido e fragrante.
I greci successivamente le hanno miglorate fino a produrre  70 tipi di pane con l’aggiunta di condimenti e aromi,  molto simili a quelli moderni.
Sono stati i romani ad introdurre il pane in Italia (portando fornai greci come schiavi). Sembra che il termine farina derivi da farrina cioè ricavata dal farro (Triticum dicoccum) una qualità di grano duro molto coltivata, allora, nel centro Italia e da cui deriva, a seguito di vari incroci il Triticum durum il nostro grano duro. Da un altra selezione naturale è nato il Triticum spelta o farro spelta che ha generato il Triticum aestivum, il nostro grano duro.
Secondo Plinio la produzione del pane su più ampia scala è iniziata, a Roma, nel 171 a.c. con la legalizzazione di una categoria di artigiani, i pistores ( da pistor-oris cioè “chi pesta i cereali nel mortaio”) che all’inizio erano liberti o cittadini di bassa condizione sociale e che poi, quando divennero dei fornai, ottennero molti privilegi fino a creare una corporazione (colleggium pistorum) che riusci ad ottenere contributi dall’amministrazione per la distribuzione gratuita del pane al popolo.
Si perchè il pane aveva raggiunto una tale diffusione da sostituire la classica polta o plus (zuppa di cereali selvatici, leguminose e quando c’era carne) e da diventare cibo indispensabile per ricchi e poveri tanto che in periodi di carestia furono promulgate leggi prima per la distribuzione a metà prezzo del grano e poi per la distribuzione gratuita del pane. Era così diffuso che Giovenale nelle sua Satire coniò la famosa espressione “Panem et Circenses” cioè mangiare e divertirsi.
Però, il pane industriale dei giorni nostri, ha poco a che vedere con il pane che producevano gli egiziani e i romani con una tecnica, conservata più o meno uguale, fino agli inizi del ‘900.
Il pane che noi usiamo al giorno d’oggi è, per lo più, pane di frumento (di grano tenero nei paesi più freddi e di grano duro in quelli più caldi); il frumento è però un cereale che fino a non molti hanni fa, come sopra detto, non era così diffuso ed era considerato un cereale per  ricchi. Le popolazioni meno abbienti lo usavano perciò come merce di scambio e per la panificazione o per le “polente” usavano cereali più “poveri”.
 Cesta pane
Lo spiega bene Dino Coltro ne “La cucina tradizionale veneta”. (Newton Compton editori)
……. Nelle case bracciantili il pane era una rarità. Secondo le testimonianze orali, il pane accompagnava la carne a Natale, a Pasqua e alla Sagra. Era considerato il cibo rituale del Natale. Nelle case attaccata a una trave della cucina, c’era la zesta del pan, la cesta del pane, perché el pane fato in casa, fatto in casa, era custodito con gelosa attenzione dalla mare, la madre governatrice. Ai bambini bastava on corno de pan; alle donne meza ciopeta; agli uomini na ciopeta.

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Nei tempi più recenti (inizio del ‘900) ogni contrada aveva il forno in comune e ogni tanto, se fase na sfornà de pan, si cuoceva una sfornata di pane. Il ≪tempo del pane≫ era rappresentato dalla medanda il periodo della mitetitura. Perché aveva del so, terra propria, il pane era, naturalmente, il  ≪ pane quotidiano≫ tenendo però presente che per i coltivatori diretti, il frumento costituiva ≪merce di scambio≫ o comunque una fonte di guadagno, come la stalla. La polenta resteva anche per loro la base dell’alimentazione. Ogni zona, si può dire, aveva particolari forme di pane; la ciopa, la ciopeta, el panetto, la roseta ecc.
…….Il Ruzante, nella Betia, cita un pan de massaria, certamente di grande formato, cotto una volta la settimana. Mentre è el pan scafetò (pane biscottato e condito più simile ai biscotti odierni) appare un pane prelibato, da ricchi e da cittadini, questo pan de massaria doveva essere il pane dei contadini. Questi ultimi si cibavano anche di pianele, schiacciate di farina di castagne, il castagnaccio venduto sui banchetti delle piazze fino a qualche decennio fa. El magnar pan e megior vin costituisce per i protagonisti della Betia un sicuro e felice nutrimento………
 Le moderne tecniche di panificazione si sono rese necessarie dalla separazione delle città dalla campagna e di conseguenza dalla necessità di lavorare le farine perchè si conservassero nel tempo. Tradizionalmente in ogni città e in ogni villaggio era presente un mulino e i chicchi di cereale venivano conservati interi e macinati all’occorenza circa una volta al mese; in questa maniera si conservavano più a lungo e la farina era sempre “fresca”. Con l’avvento delle grandi città era diventato più comodo macinare grandi quantità di farina per agevolarne la vendita. Per conservare le farine piu a lungo era però necessario privarle delle sostanze oleose, proteiche e vitaminiche presenti nella crusca, che  inrancidivano più facilmente. Queste sostanze però sono quelle che danno al pane la caratteristica fragranza e il caratteristico aroma. Da qui è iniziata l’abitudine di aggiungere al pane grassi vegetali o animali per avere accettabili qualità organolettiche e farlo durare di più nel tempo.
 

Quando e cosa si serve per una veglia funebre

 
Da "Dona Flor e i suoi due mariti" - Jorge Amado -Garzanti 1977

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Scuola di culinaria sapore e arte
Quando e cosa si serve per una veglia funebre.
(risposta di donna Flor ad una alunna)
Non perché avviene in un giorno disordinato di lamentazioni e tristezza, non per questo si deve permettere che la veglia funebre vada alla bell’e meglio. Se la padrona di casa, fra singhiozzi e svenimenti fuori di sé, immersa nel suo dolore, o giacente morta nella bara, non potrà farlo, un parente o una persona amica si assumerà l’incarico di occuparsi della veglia, poiché non si possono abbandonare senza niente da bere né da mangiare, i poveretti, solidali per tutta la notte, a volte in inverno e col freddo.
Acciocché una veglia funebre sia animata ed onori effettivamente il defunto che la presiede, rendendoli meno grave la prima confusa notte della sua morte, è necessario dedicarvi cure sollecite, occupandosi del morale e dell’appetito.

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Quando e cosa ci serve?
Ebbene, si serve per tutta la notte, dal principio alla fine. Il caffè è indispensabile, e va servito in continuazione, naturalmente in tazze piccole. Il caffe e latte, con pane, burro, formaggio, qualche biscottino, qualche polpettine di aipim (Mandioca commestibile) o carimã (Sinonimo di pupa), fette di couscous con uova fritte, quello solo al mattino e solo per chi ha passato li la notte, fino all’alba.
La cosa migliore è tenere sempre al fuoco un bollitore perché non manchi mai caffè, visto che arrivano continuamente nuovi visitatori. Il caffè in tazzina è accompagnato da biscotti o crackers; qualche volta si può servire un vassoio di roba salata, panini con formaggio, prosciutto, mortadella, cose semplici, visto che complicazione ce ne sono già abbastanza col defunto.
Se però la veglia dovesse essere una veglia di lusso, di quelle dove il denaro corre a fiumi, allora é di prammatica una tazza di cioccolata a mezzanotte, spessa e bollente, oppure un brodo grasso di gallina. E per completare, polpettine di baccalà, fritto misto, crocchette, dolci assortiti, frutta secca.

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Da bere, trattandosi di una casa ricca, oltre al caffè ci può essere della birra o del vino: solo un bicchiere per accompagnare il brodo e il fritto. Champagne mai, non è considerato di buon gusto.

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Sia in una veglia ricca, sia in una veglia povera, si esige però la presenza costante e necessaria, di una buona cachaçina (Acquavite di canna); tutto può mancare, persino il caffè, lei sola è indispensabile; senza il suo conforto non c’è veglia funebre che si rispetti. Una veglia funebre senza cachaça significa mancanza di considerazione per lo scomparso, indica indifferenza e disamore.
 

Tagliatelle verdi

 Da Quilombo, di Daniel Chavarria

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Per il pesto genovese, naturalizzato in Uruguay fin dai tempi dell’armata garibaldina, mia nonna sostituiva i pinoli, introvabili a quelle latitudini, con le noci; e sminuzzava il basilico dolciastro del nostro paese insieme alle altre erbe mediterranee scelte dallo stesso Achemedo, per dare al nostro pesto uno sconvolgente contrasto amarognolo e una vivacità che non ho mai trovato nel canonico modello ligure. Ma il piatto che ho gustato con maggior godimento in tutta la mia vita, mia nonna lo preparava quando mi portava al suo paese natale, durante le vacanze scolastiche. Erano le tagliatelle verdi, che con l’aiuto di sorelle e cognati, impastava sotto la pergola nel cortile sul retro, all’ombra degli alberi piantati da mio bisnonno calabrese. Con quelle tagliatelle estive banchettavano una trentina di membri della famiglia e qualche amico. Per condirle, Margarita cucinava quello che ancora oggi si conosce come il tucco, un sugo genovese con più o meno gli stessi ingredienti di quello bolognese ma al posto della carne trita metteva un gran pezzo di coscia, farcito con erbe aromatiche e lardo. Margarita e le sue sorelle non lavoravano mai la pasta dove poi si sarebbe mangiato. Era una norma dettata da certi arcani del suo paese natale. (….). Una volta che la pasta aveva raggiunto l’elastica compattezza, la si lasciava riposare coperta di piazzuole bianche. (…..) Ne strappavano con crudeltà grandi manciate, che domavano a suon di pizzicotti, schiaffi e pugni, fino a ottenere due o tre lenzuoli giallognoli, quasi trasparenti, che coprivano per intero la tavola.

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A quel punto, quelle donne sudate si dissetavano con orzata e limonata, mentre gli uomini adulti bevevano mate, birra o grappa. (….) Seguiva la liturgia finale irripetibile, che ricordo con nostalgia consapevole che non vi parteciperò mai più. Con l’acqua bollente si lavava il piano di legno sulla quale le donne avevano impastato. Poi si raschiava a fondo il tavolo spazzolandolo fino a togliere ogni traccia di farina. Allora, mia nonna e lei soltanto, in qualità di grande sacerdotessa di quel rito ancestrale e senza l’aiuto di nessuno, prendeva qualche mazzetto di basilico, rosmarino, maggiorana, finocchio e strofinava il legno fumante del tavolo. In quelle occasioni non usavamo i piatti, ma le tagliatelle verdi venivano rovesciate direttamente sul ripiano di legno senza tovaglia. Si servivano ben scolate e asciutta con un buco al centro in cui versavamo il sugo rossastro e il formaggio bianco.
 

Tsampa

 

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La Tsampa, è un alimento tradizionale tipico del Tibet, del Ladakh e dell’Himalaya indiano occidentale.
Ha probabilmente origini molto antiche di quando i cereali, per essere trebbiati e cioè si separava la crusca dalla parte amidacea, dovevano essere tostati e di conseguenza assumevano una consistenza troppo dura per essere usati direttamente.
Per preparare la Tsampa bisogna ammollare l’orzo per una notte asciugarlo prima con un panno e poi sul fuoco in una padella, macinarlo e impastarlo con acqua o tè fino ad ottenere una pasta liscia che poi viene sciolta con burro di yack e il denso e scuro tè tipico del Tibet.
La tsampa è un cibo facile da preparare e da conservare ed era utilizzato dagli Sherpa e dai nomadi.

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Andrè Migot medico e viaggiatore del Novecento ha descritto nel suo libro Tibetan Marches del 1955 come i tibetani preparavano questo piatto:
“ Si lascia un po’ di tè imburrato nel fondo della ciotola e lo si ricopre con un grande pezzo di tsampa. Si mescola delicatamente con l’indice, poi si impasta con la mano facendo ruotare al tempo stesso la ciotola, finche non si ottiene una massa grande dalla forma di un gnocco, che si procede a mangiare, annaffiandolo con altro tè. L’intera operazione richiede un alto grado di abilità manuale, e occorre una certa esperienza pratica prima di poter giudicare correttamente quanto tsampa si accompagni a una certa quantità di tè e viceversa; finche non si hanno le giuste proporzioni, il prodotto finale rischia di trasformarsi o in una massa di pasta troppo asciutta, oppure in una polentina semiliquida che si appiccica alle dita…. L’intero processo, in un paese in cui nessuno si preoccupa di lavarsi, ha il vantaggio aggiuntivo che, per quanto sporche siano le mani prima di impegnarsi nella preparazione di questo cibo, alla fine sono generalmente pulitissime”
 

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