Shiatsu e Vipassana
L’Arte dello Shiatsu e l’esperienza della Meditazione Vipassana in pratica
Autore: Fabio Zagato, caposcuola I.R.T.E.
Uno dei problemi maggiori dell’Operatore Shiatsu di formazione “post Masunaga”, ossia dell’Operatore che lavora sul piano dell’energia vitale, riguarda la sua relazione “da Ki a Ki” con il ricevente, poiché nel contatto energetico tra i due soggetti della relazione si esprimono sempre condizionamenti reciproci, a volte consapevoli, spesso inconsci.
L’Operatore influenza il ricevente attraverso due dispositivi generali: la strategia che utilizza e la qualità delle sue pressioni. Per strategia intendo la metodologia applicata, il tipo e la scelta dei kata usati, la scelta dei meridiani energetici su cui agire o meno, le modalità di utilizzo ecc., tutti aspetti del lavoro che sono senza dubbio parte rilevante della relazione con il ricevente e dell’influenza che l’Operatore esercita sul Ki. Peraltro la miglior strategia possibile fa tristemente naufragio se non è accompagnata da una buona o ottima qualità della pressione.
Per qualità della pressione non intendo solo la capacità dell’Operatore di dosare la pressione attraverso l’utilizzo del proprio peso corporeo ben bilanciato e degli strumenti di lavoro di volta in volta selezionati: pollice, palmo ecc. La qualità della pressione è subordinata ad un altro fattore fondamentale, e cioè al bilanciamento energetico del Ki dell’Operatore.
In modo primario qualsiasi Operatore sperimenta che se è teso, nervoso o disturbato emotivamente in qualche modo, grazie a un buon addestramento può riuscire al massimo ad esprimere una pressione precisa solo nei contenuti tecnici. Qualcosa però non funziona comunque, la qualità della pressione non è buona, non arriva a “toccare” il ricevente in modo appropriato e quindi la sua raffinatezza ed efficacia energetica ne risulta compromessa. L’Operatore non è in equilibrio.
Un’inesattezza frequente è quella di pensare all’equilibrio come ad uno stato mentre viceversa si tratta di un processo. Ci è abbastanza facile comprendere che sia un processo in senso macroscopico. Ci si può sentire equilibrati per un certo periodo di tempo, poi stanchezza e accadimenti interni o esterni turbano l’equilibrio che quindi viene perso e deve essere ricercato nuovamente. Chiaramente quindi non esiste una condizione di equilibrio astratta, né l’equilibrio può essere considerato qualcosa che si raggiunge una volta per tutte e poi rimane lì. Questo si comprende facilmente. Ma in realtà il bilanciamento, e l’equilibrio conseguente, sono un processo dinamico continuo, là dove in presenza di continui input sensoriali (considerando anche la mente come organo di senso) più o meno destabilizzanti, l’Operatore riguadagna continuamente una quota accettabile di equilibrio in funzione del lavoro che svolge in questa direzione. In un certo senso fa come chi cammina o corre, che perde l’equilibrio continuamente mentre compie il passo ma continuamente lo riguadagna, e in questo modo procede verso un obbiettivo.
Ma qual’è il lavoro che l’Operatore deve svolgere per rimanere nel processo di bilanciamento? Sostanzialmente uno solo, essere percettivo a se stesso, poiché non dobbiamo dimenticarci che noi non percepiamo l’altro, percepiamo solo noi stessi. Spesso ci si dimentica di questa realtà elementare. Dire che percepiamo il mondo intorno a noi, o specificamente il ricevente, vuol dire esclusivamente che noi percepiamo in noi stessi i cambiamenti che il contatto con il mondo o con il ricevente provocano in noi.
Noi non percepiamo l’altro. Noi percepiamo le nostre reazioni al contatto tra i nostri organi sensoriali e l’altro. Quindi percepiamo sempre e solo noi stessi. Questo ha varie conseguenze, ma per il ragionamento che stiamo facendo ne ha una primaria, e cioè che per essere sensibili all’altro noi possiamo solo essere presenti e sensibili a noi stessi. Ciò vuol dire quindi automaticamente che noi dobbiamo avere buona conoscenza percettiva di noi stessi, per poter renderci conto di cosa cambia in noi quando entriamo in contatto con l’altro. Perché ciò che cambia in noi in certo senso è “l’altro in noi”. E questo vuol dire che l’altro non può mai essere esterno a noi, ci piaccia o meno.
Essere presenti a se stessi vuol dire utilizzare adeguati strumenti che sviluppano quest’attitudine della mente, così poco coltivata in genere. Uno di questi è la propriocezione. Per propriocezione si intende in genere l’insieme dei messaggi inviati al sistema nervoso centrale da terminazioni specializzate (propriocettori), che sono coinvolti nel fornire informazioni circa l’orientamento del corpo nello spazio, il suo movimento o il movimento di parti di esso, la sua posizione, la sua localizzazione eccetera.
Nello shiatsu lo sviluppo dei somatosensi riporta l’operatore ad un’attività propriocettiva particolare, specificamente funzionale al rapporto con il ricevente. Infatti, tutta la tecnica dei kata deve essere anche un addestramento continuo alla propriocezione. All’operatore è richiesto di sviluppare una precisa consapevolezza della posizione del suo corpo nello spazio e un’uguale consapevolezza dei movimenti che il suo corpo compie, perché sarà proprio attraverso un kata impeccabile che entrerà in contatto correttamente con il paziente. Ma un ulteriore aspetto della propriocezione è legato al fatto che l’operatore muove se stesso ‘verso’ l’utente fino a stabilire un contatto finalizzato, e da questo contatto nasce una risposta che attiva in termini sottili le funzioni propriocettive dell’operatore.
Va sottolineato che il momento propriocettivo più importante si instaura proprio nella fase di stasi della pressione shiatsu, lì dove l’operatore apprezza la risposta che il corpo del ricevente gli rimanda. Avremo quindi, al termine dello spostamento nello spazio del corpo dell’operatore, l’instaurarsi di una fase determinata dalla pressione shiatsu, in cui operatore e ricevente si scambiano messaggi ‘energetici’, per definire con un’unica parola i livelli somatici, psichici, emozionali, elettromagnetici, eccetera, che entrano in interazione durante la fase pressoria. Scomponendo infatti ciò che accade durante il contatto shiatsu, possiamo proporre le seguenti osservazioni, in relazione alle dinamiche propriocettive che vengono in essere nelle sequenze di ingresso, stasi e uscita.
1) L’operatore muove verso il paziente mantenendo un certo grado di attenzione verso le sensazioni che provengono dal suo corpo che si sposta correttamente nello spazio (rachide allineato, diaframma libero, uso dello spostamento del baricentro).
La posizione corretta e l’attenzione gli permettono così di percepire la tensione eventuale presente nel suo corpo, provocata o da una scorretta esecuzione tecnica del kata, oppure da uno stato psicofisico non bilanciato. La tensione, che può esprimersi nell’operatore in vari modi e in varie aree del soma, produrrà comunque sempre sensazioni nell’area addominale, che è, non a caso, la zona dove sono rilevabili le aree di diagnosi energetica yin di organi e visceri. Sappiamo infatti che l’atteggiamento energetico generale yin comprende in sé le caratteristiche di accoglimento percettività, e l’esperienza ci insegna che le zone in cui più chiaramente percepiamo le emozioni sono l’addome e il petto. Non a caso nell’uso popolare esistono espressioni come ‘sentire di pancia’, ‘sentirsi dentro’, eccetera, mentre “esserci solo di testa “ vuol dire esattamente l’opposto.
Nell’area addominale, quindi, l’operatore avrà la possibilità di percepire la propria reazione al suo avvicinarsi al ricevente, al suo entrare in contatto con un altro corpo, forse sofferente in misura più o meno esplicita, e di questa reazione dovrà essere assolutamente consapevole, pena il suo stesso sbilanciamento energetico.
2) L’operatore carica il suo peso corporeo sul paziente utilizzando gli strumenti di lavoro appropriati. Nella fase statica della pressione, l’operatore è in rapporto diretto con il corpo del paziente e, mantenendo focalizzata l’attenzione sull’area di contatto, ha la possibilità di ascoltare il dialogo che si instaura tra i propri sistemi propriocettivi e quelli del paziente all’interno di un meccanismo di biofeedback spontaneo.
Possiamo infatti considerare che di fronte a qualsiasi sensazione noi abbiamo una risposta di tipo binario: a) sensazione piacevole; b) sensazione spiacevole. Esiste poi la situazione ‘non a), non b)’, in cui la sensazione è ignota, quindi neutra; ma in breve tempo, appena messa a fuoco, diventerà di tipo a) oppure b). In relazione alla sensazione piacevole, la risposta psicofisica condizionata sarà quella di ‘trattenere’ la sensazione, in modo da poter prolungare il piacere stesso. In relazione alla sensazione spiacevole, la risposta condizionata porterà automaticamente ad atteggiamenti di evitamento e difesa che abbrevino il tempo di percezione della sensazione spiacevole. In ambedue i casi questi atteggiamenti, apparentemente polari, si scontrano con un dato di realtà incontrovertibile: i fenomeni, infatti, di qualsiasi tipo essi siano, sono impermanenti e sostanzialmente ingovernabili. Così come il desiderio che una sensazione piacevole non svanisca non può che generare uno stato di frustrazione, e cioè di congestione del flusso energetico, così il non riconoscere che anche una sensazione spiacevole è impermanente determina, in ragione dello sforzo di negarla, la medesima situazione di frustrazione e congestione energetica.
In senso generale, quanto affermato è stato probabilmente sperimentato chiaramente da ognuno di noi, quanto meno in situazioni particolarmente coinvolgenti di piacere e dispiacere. Tuttavia, ciò che è importante sottolineare è che l’atteggiamento di trattenimento evitamento è presente nella mente in modo quasi continuo, ed è motivo quindi dell’instaurarsi di un attrito continuo tra la realtà dei fenomeni e il modo in cui noi li viviamo. In termini utilizzabili nella teoria della tecnica shiatsu, possiamo quindi dire, per esempio, che una sensazione piacevole dallo stato di esistenza (yang) tende ad andare verso il suo naturale stato di quiescenza (yin) seguendo il normale flusso oscillatorio di ogni fenomeno. La mente che vuole trattenere la sensazione piacevole oltre il suo naturale tempo di vita si pone quindi in attrito irragionevole con il tessuto energetico della realtà, creando in certo modo una specie di realtà separata, allucinatoria. Allo stesso modo, il tentare di negare l’insorgere (yang) di un fenomeno sgradevole è un pò come tentare di fermare l’alta marea con le mani: impossibile, frustrante, origine di ulteriori sensazioni spiacevoli. Dalla nostra capacità maggiore o minore di accettare le sensazioni per quel che sono, fenomeni impermanenti e ingovernabili, oscillanti tra la condizione yin e yang, dipende quindi lo stato di maggiore o minore congestione in cui costantemente ci troviamo. Diventa così evidente l’importanza che assume quanto esposto in relazione al contatto che si instaura tra operatore e ricevente.
3) L’operatore si ritira dalla pressione rapidamente o lentamente a seconda dell’effetto desiderato. Nella fase di uscita diventa particolarmente evidente quanto detto sul rischio di ‘invischiamento’ dell’operatore nelle sue sensazioni. Sono infatti frequenti, nelle relazioni dei professionisti, le situazioni in cui l’uscita viene ritardata il più possibile perché la pressione generava sensazioni piacevoli nel punto x, oppure, al contrario, affrettata perché la pressione generava sensazioni spiacevoli nell’operatore. Il tempo della pressione non è quindi determinato dall’utilità della pressione, ma dalla reattività più o meno inconscia dell’operatore.
Proviamo ora a sintetizzare quanto detto.
– Durante la pressione statica l’operatore prova delle sensazioni: piacevoli, spiacevoli o ignote, e quindi momentaneamente neutre. Tanto maggiore è il suo grado di reazione (trattenimento evitamento) tanto maggiore è il grado di congestione energetica che si sviluppa nell’operatore stesso. – Chi riceve la pressione shiatsu riceve quindi un messaggio composto dalle ‘frequenze’ energetiche caratteristiche dell’operatore e dal suo reagire al ricevente. A sua volta l’utente, la cui energia si riorganizza in certa misura in rapporto alle informazioni che gli sono arrivate dalla pressione, ritrasmetterà un nuovo messaggio all’operatore, che a sua volta reagirà, e così di seguito all’interno di un meccanismo continuo di biofeedback.
Se il messaggio che giunge al ricevente è energeticamente congestionato, muoverà in lui desideri di evitamento più o meno evidenti. Se la pressione è grossolanamente inappropriata, il paziente potrà esprimere l’evitamento in maniera palese, tramite l’irrigidimento automatico dei muscoli, per esempio. Quando invece la pressione è corretta nei suoi aspetti più banali, ma accompagnata da un ‘invischiamento’ inconsapevole dell’operatore che sta soggiacendo a meccanismi di trattenimento evitamento, allora dovremo considerare gli effetti di questa situazione.
Abbiamo detto che la condizione normale dell’energia vitale è quella di flusso, e che tutti i problemi nascono proprio dall’alterarsi di questa situazione. La vera azione riarmonizzante dello shiatsu si sviluppa quindi nella misura in cui l’operatore riesce a richiamare nel ricevente la migliore condizione di circolazione energetica possibile. Per ottenere ciò dispone di una metodologia specifica che gli permette di intervenire, tramite pressioni, sui meridiani energetici e sulle aree di diagnosi. Questo intervento, in certa misura, anche se condotto superficialmente ha già un’attività normalizzatrice su parte delle condizioni energetiche del ricevente. Tuttavia, nel momento in cui insorgono nell’operatore atteggiamenti di trattenimento evitamento, questi atteggiamenti stessi gli precludono l’accesso a livelli più sottili e profondi dello stato energetico del corpo-energia dell’utente , poiché esprimendosi come congestione non possono certo svolgere un’azione normalizzatrice nei confronti di congestioni similari. Inoltre, queste condizioni di congestione non consapevole insorte nell’operatore divengono responsabili delle sensazioni tante volte lamentate da chi pratica shiatsu professionalmente: stanchezza, sensazione che il ricevente abbia prosciugato tutte le energie dell’operatore, sensazioni sgradevoli di rimbalzo o che insorgono in lui durante il trattamento, e così via. Questo tipo di disturbi sono in pratica autoprovocati dall’operatore stesso, e trovano poi terreno fertile nel riverberare sui suoi problemi energetici costituzionali.
In relazione a quanto detto perciò è da considerare di estrema importanza nel training formativo dei professionisti lo svilupparsi di un’attenzione propriocettiva costante, in un certo modo automatica e istintiva. Infatti, se è vero che nell’area addominale noi abbiamo la possibilità di percepire immediatamente l’instaurarsi di uno stato di tensione, di congestione energetica, è vero anche che a partire dall’addome noi probabilmente possiamo imparare a deconnetterci dall’atteggiamento psichico che sta provocando lo stato di tensione.
Per quanto riguarda la mia esperienza personale, ho avuto la fortuna di iniziare a fare Shiatsu pochi mesi dopo aver iniziato a praticare la meditazione Vipassana, per cui il collegamento tra esperienza meditativa ed esperienza Shiatsu è stato tanto spontaneo quanto istantaneo. Quanto ho scritto finora nasce da osservazioni di praticante di Vipassana che pratica Shiatsu. Rispetto all’esperienza di Vipassana posso solo consigliare di provarla. Non tutti ci sono portati, o comunque non in ogni fase della vita, ma nel caso, penso che porti ad un enorme guadagno, o almeno così è stata la mia esperienza. Non credo sia più che tanto utile parlare di Vipassana, e che possa essere più utile praticarla, ma parlerò un pochino della mia prima esperienza, e dei suoi effetti su di me.
Ho cominciato a praticare la meditazione Vipassana nel novembre del 1974, durante il primo intensivo di 10 giorni organizzato in Italia da tre studenti che avevano praticato in India con il maestro Goenka; al loro ritorno in Italia avevano invitato John Coleman a guidare un intensivo a Torrazzetta, nel pavese. Anch’io ero appena tornato dall’India, dove in 2 anni avevo sfiorato, perché di piú non potrei dire, il vasto mondo induista e in particolare avevo avuto contatti abbastanza prolungati con Auroville, il villaggio-ashram fondato da Aurobindo vicino a Pondycherri, nel Tamil-Nadu. In Italia avevo invece frequentato le prime comunitá Tibetane, avevo conosciuto alcuni Lama ai quali va tuttora il mio affetto e riconoscenza, tra cui Geshe Rabten e Kalu Rimpoce, da cui ero stato anche “battezzato tibetano”, e quindi, tra India e Tibet, avevo accumulato un caleidoscopio di impressioni molto “orientali” delle pratiche meditative. Il che, d’altronde, penso sia stato abbastanza comune a diverse persone della mia generazione.
John Coleman era grande e grosso e vestiva anonime tute da ginnastica, che accoppiava con dei golf privi di qualsiasi forma e di colore incerto. Aveva mani e piedi extra-large, considerava la Macrobiotica “quella cosa a base di cavoli e carote”, beveva il cappuccino alla fine dei pasti. Dal punto di vista dell’estetica meditativa era un disastro. L’intensivo di Vipassana apparentemente consisteva nel passare ore su ore a praticare una tecnica tediosissima di attenzione alla sensazione provocata dall’aria quando tocca le narici nell’atto respiratorio (Anapana-sati), una cosa di una noia pazzesca ma che aveva la capacitá di farmi diventare nervosissimo. A guardare John seduto in fondo alla sala su un rialzo coperto da un tappetino (nemmeno indiano, era uno scendiletto qualsiasi) ed in tuta da ginnastica, la Meditazione Vipassana mi sembrava evidentemente una cosa arrangiaticcia, poco orientale, forse era qualcosa inventata dagli americani. Anzi piú passavano i giorni piú mi convincevo che doveva trattarsi di una di quelle solite cose che gli americani importavano dall’estero senza capire di cosa si trattava. Un po’ come l’Impero Romano visto da Cecil De Mille. Non c’erano rituali, non c’erano mantra, non c’era neanche una piccola visualizzazione da fare; niente di niente se non ore su ore a respirare. Non si poteva parlare, non si poteva leggere, non si poteva far niente se non respirare e star zitti. Sembrava era una pratica monacale per penitenti sado-maso, bisognava alzarsi alle 4 di mattina e andare a letto alle 20.00. Io ero abituato a fare piú o meno l’opposto, alle 8 di sera cominciavo appena a sentirmi vivo, per cui poi passavo la notte sveglio. Il cibo era costituito da riso e verdurette lesse, e si mangiava una volta al giorno. Niente curry profumati, niente fiori e canti. Riso, verdurette e silenzio. Dopo 3 giorni e 1/2 di questo tormento, John Coleman ci condusse attraverso Vipassana, una seconda tecnica che almeno era una novitá rispetto allo star lí a respirare. In compenso provai dei dolori accecanti alle gambe e a tutto il corpo, e sperimentai odio allo stato puro per l’insegnante e per tutto ció che aveva contribuito a farmi trovare lí in quel momento. A quel punto avevo deciso di andarmene da quello squallore, da quella tortura insensata. Mi recai quindi da Coleman, deciso a dirgli il fatto suo e poi andarmene sbattendo la porta. Non era cosí che si organizzava un corso di meditazione, qualsiasi meditazione volesse essere.
Caso volle che in fila davanti a me, sulla soglia della stanza dove Coleman aveva i colloqui con gli studenti, ci fossero quattro giovani svizzeri, del tipo freak-bene, che in attesa di parlare con Coleman, stavano confrontando tra di loro gli insulti che erano in attesa di sbattergli in faccia. Erano arrabbiatissimi, e sibilavano tra loro le stesse cose che anch’io avevo intenzione di dire a Coleman, tali e quali. E’ dal fango che nascono i fiori; ascoltare me stesso e vedere me stesso in loro mi fece provare un certo senso di vergogna, un certo disagio verso questo me stesso viziato e querulo. Non che loro fossero il fango ed io il fiore, ho una grande riconoscenza per quegli involontari specchi delle mie miserie. Il fiore fu che me ne tornai stringendo i denti al mio intensivo e poi andó come doveva andare, tant’é che dopo 32 anni sono ancora qui, a mangiare ciclicamente riso e verdurette in silenzio.
Dimenticavo di dire che durante quel primo intensivo, infransi praticamente tutti i precetti piú qualcun altro. Per inciso, ció mi provocó delle complicate avventure interiori, per cui sconsiglio vivamente l’esperienza. Ma la mia generazione, oltre ad essere di poeti e navigatori, era anche una generazione di rivoluzionari a 360 gradi. Le regole di qualsiasi tipo ci andavano strettissime, romperle era quasi un riflesso automatico, tanto per mettere le cose in pari.
In quell’occasione, conobbi un aspetto di John Coleman che mi insegnò molto anche in seguito, e che é una delle caratteristiche specifiche dell’insegnamento: e cioè la capacitá di richiedere disciplina, impegno e responsabilitá dandoti gli strumenti per scoprire cosa siano la disciplina, l’impegno e la responsabilitá… e nient’altro, neanche un santino o una foto-ricordo a cui attaccarti. A qualcuno forse sembrerá strano, ma astenersi sul serio da diventare il confessore, la madre, il padre, dio, la zia, un mirabile esempio, un santo, ecc. per i propri studenti, richiede una capacità elementare e raffinatissima, come tutto ció che ha inerenza al Dhamma. Richiede cioé la capacitá di lasciare qualcun’altro solo con le proprie proiezioni, dopo avergli dato gli strumenti per suscitarle, portarle in luce, ed affrontarle. Molto spesso noi riusciamo piú o meno a compiere i primi due passi, ma desideriamo che qualcuno compia il terzo per noi. E la richiesta infantile che in modi diversi noi portiamo al nostro insegnante, é la stessa che abbiano posto ai nostri genitori, alla societá e agli dei: risolvimi tu il problema! Risolvimelo dandomi una ricetta, un pezzo di carta, un immagine o qualcosa che mi tranquillizzi e che soprattutto possa accusare, se per caso casco in una pozzanghera a faccia in avanti.
Invece c’è solo un sentiero, un passo dopo l’altro, e l’orizzonte in lontananza è nascosto da una vaga nebbiolina.
Che tutti gli Esseri possano essere completamente Risvegliati.
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